Ed in quel momento mi accorgo che non sono più a casa mia, nella mansarda, ma nella grande sala di casa tua, Eve, che si è fatta simile alla mia mansarda, ma che è pervasa dalla luce del tardo pomeriggio, gialla, un frammento d’estate domestico, caldo, silenzioso. Ho tra le mani questa chitarra meravigliosa, leggera, vibrante, decorata come un oggetto sacro, intarsi di legno di rosa, mogano, chiarissimo acero e segni eleganti, di alfabeto sapienzale, o di civiltà iperboree. Le corde, dodici, intonse, il fine ritorto dell’ottone brunito dei bassi, il cantino come un filo di seta dall’aspetto severissimo, tese sull’oscurità della buca ovale. Sto per suonarla, quando compari, azzurra marina la tua sottoveste, azzurro chiarissimo la pelle liscia delle braccia, i capelli sciolti color grano, di russa, la sensualità naïf di un paginone di Playboy degli anni Sessanta, scalza, sorridente. “Ti ho fatto il caffè. ” Nella tazzina, che mi porgi maliziosamente, splende un grumo di luce intensa, della stessa qualità di quella pomeridiana che riempie il salotto, ma coesa in uno sfumato gioiello radiante.
“Va preso caldo. ” Quanto sei bella, ho in mano questa bellissima chitarra, il caffè di luce da prendere, ed ora , le spalle scoperte, tu stai allattando tua figlia, brilla un sottile zampillo di stelle dal tuo seno grande, rotondo: ora sei figura tutta di luce, in un profilo che ormai si confonde; “vi sono molte più cose su questa Terra, ed in Paradiso, di quante puoi sognarne nei tuoi libri di filosofia, Horatio…” Ti guardo in silenzio. Non voglio svegliarmi, non voglio lasciare questa bellissima preziosa chitarra, né questa bella luce.